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Garattini: “Invecchiare bene? Serve una rivoluzione culturale”

Esce per Edizioni Lswr "Invecchiare bene", scritto a quattro mani da Silvio Garattini e Ugo Lucca dell'Istituto Mario Negri. Una guida necessaria per guardare alla longevità con consapevolezza personale e coscienza collettiva.

di Rosy Matrangolo

26 Aprile 2021

© ARMANDO ROTOLETTI

Non sciagure, non ineluttabile destino. Molte malattie sono una sconfitta. Sono il fallimento della medicina quando perde di vista che si deve curare solo quando non è possibile prevenire. Se la maggioranza delle patologie, soprattutto quelle croniche, è evitabile, allora servirebbe una rivoluzione culturale in cui fare prevenzione è lo scopo primo nell’auspicato equilibrio di garantire per tutti una vita in salute.

 

Ne è convinto Silvio Garattini, fondatore nel 1963 e oggi presidente dell’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS, e lo ribadisce nel libro “Invecchiare bene” (Edizioni Lswr, 2021) realizzato in collaborazione con Ugo Lucca, responsabile del Laboratorio di Neuropsichiatria Geriatrica all’Istituto Mario Negri.

Il volume raccoglie le evidenze scientifiche che dimostrano i meccanismi alla base degli stili di vita che favoriscono una longevità sana ma il focus supera l’elenco degli accorgimenti che ciascuno di noi dovrebbe adottare per mantenersi in buone condizioni fisiche e mentali: lo sforzo qui compiuto è richiamarci alla consapevolezza che la salute pubblica dipende da un mix di responsabilità individuali e collettive. Come amministratori locali, come sanitari, come studenti, genitori e insegnanti. Come cittadini, in sintesi.

 

L’invecchiamento nella popolazione italiana

La pandemia da Covid19 ha certamente fatto saltare ogni analisi a lungo termine ma secondo il Rapporto BES 2020 “Nel decennio, la speranza di vita alla nascita ha mostrato miglioramenti progressivi, accompagnati da dati positivi per la speranza di vita senza limitazioni a 65 anni, sul fronte della mortalità per tumore, della mortalità per demenze e malattie del sistema nervoso degli anziani, della mortalità infantile e della sedentarietà”. L’aspettativa di vita alla nascita, ricorrendo ad altri numeri, è andata aumentando e siamo ai primi posti in Europa con i circa 81 anni per il maschio e 85 anni per la femmina (Dati Istat 2020).

Ma come invecchiamo, noi italiani? Qui sorgono le maggiori difficoltà: l’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) ha calcolato che nell’anno appena trascorso “la incidenza delle neoplasie maligne è stimata pari a 377.000 nuovi casi. In ambedue i sessi, la incidenza cresce con l’età ed è maggiore nei maschi (maschi = 195.000; femmine = 182.000)”. Nel documento PASSI dell’Istituto superiore di sanità, ancora, è specificato che “dimensione della cronicità e della policronicità raggiunge numeri importanti con l’avanzare dell’età: già dopo i 65 anni e prima dei 75, più della metà delle persone convive con una o più patologie croniche fra quelle indagate e questa quota aumenta con l’età fino a interessare complessivamente i tre quarti degli ultra 85enni, di cui la metà è affetto da due o più patologie croniche”.

 

Quando iniziare a preoccuparsi di invecchiare bene?

“I risultati della ricerca scientifica indicano che più del 50% delle malattie croniche è evitabile, come pure almeno il 70% dei tumori – risponde Silvio Garattini -. L’invecchiamento è un processo complesso che parte da quando nasciamo. Perché tutto quello che facciamo è importante per il finale. Anche chi ha situazioni genetiche sfavorevoli – sappiamo dagli studi di epigenetica – attenua il danno genetico con i buoni stili di vita mentre accade il contrario quando assumiamo cattive abitudini. La gente pensa di più al fatto che se sia ammala ci saranno farmaci e in quale ospedale andare mentre invece il pensiero è che dovremmo evitare di ammalarci. Questo non è un problema individuale, cioè faccio del bene a me stesso cercando di avere una vecchiaia in buona salute. Abbiamo un dovere finché esiste il Servizio sanitario nazionale, un bene straordinario di cui usufruiamo tutti.

Anche nel rapporto medico-paziente dovrebbe essere strettamente legato alla linea della prevenzione: sgraveremmo un servizio le cui risorse potrebbero essere collocate su altri fronti. Curare la mia salute, dunque, è un dovere di solidarietà verso un bene comune e necessita, dunque, dell’aiuto di tutti noi.
Questo ha senso sin nella scuola. Nessuno insegna la salute o la scienza intesa come fonte di conoscenza autonoma diversa dalla conoscenza filosofica, artistica o da altre. A scuola acquisiamo abitudini e principi generali e in questa istituzione, ancora di più, sono appianate le differenze socioeconomiche perché tutti hanno accesso a una forma di comprensione che sarà utile in futuro”.

 

In che modo la povertà socioeconomica preclude all’invecchiamento in salute?

“Il livello socioeconomico è un determinante di salute – prosegue il medico -. Sappiamo che le persone povere con scarsa scolarità non si occupano della loro salute perché immersi in altri problemi. Dati indicano che i poveri fumano di più, ricorrono meno alle cure mediche, fanno meno controlli per la salute e sono meno consapevoli delle opportunità di salute, una maggiore scolarità diminuisce la povertà e una autonomia economica permette un altro tipo di vecchiaia”.

 

Quali sono le responsabilità collettive che agevolerebbero di invecchiare bene?

“Si parla di farmaci anti aging che di fatto ancora non ci sono. Esiste un conflitto tra il fare prevenzione, che significa evitare le malattie, e il mercato della medicina che tende a moltiplicare gli eventi che necessitano di cure. Esiste un mercato fiorente degli integratori cui fare attenzione perché il bisogno individuale di vitamine, di macronutrienti e micronutrienti non migliora con l’assunzione massiccia di integratori.

Lo Stato riceve ogni anno circa 13 miliardi di euro dalle tasse sulle sigarette ma se smettessimo di fumare potremmo chiudere con successo e risparmio economico numerose unità di chirurgia toracica, ad esempio. Se ci comportassimo in modo da non avere patologie diabetiche, renali e respiratorie dimezzeremmo l’impiego di farmaci ma perché accada questo, occorre che le istituzioni pubbliche intervengano: più campi sportivi significa avere più persone che fanno attività fisica, più attività culturali significa aumentare l’esercizio intellettuale e procrastinare la demenza senile, diminuire gli effetti dell’inquinamento significa ridurre le morti da smog”.

Esiste un accettabile equilibrio tra anzianità e uso di farmaci?

“Prendiamo il diabete di tipo 2. In linea generale è dovuto all’eccesso di cibo, alla dieta ricca di zuccheri. Io devo cercare di non avere il diabete e lo posso fare agendo sul peso, ad esempio – aggiunge il medico fondatore dell’Istituto Mario Negri -. Poi, se ce l’ho, allora mi devo curare e utilizzare quello che serve per evitarne le conseguenze come l’insufficienza cardiaca, renale e della vista. Però il mio fine primario deve essere quello di non avere la malattia. Se acquisiamo questa mentalità cercheremo di fare il possibile per evitare le malattie. Io ho 92 anni, non prendo farmaci perché non ne ho bisogno ma se mi servissero li prenderei certamente; credo nella mia vita di aver rispettato le regole che ho imparato soprattutto in famiglia e in parte durante la guerra: avevo fra i 12 e 17 anni, la dieta era povera perché c’era la carta annonaria a decidere il numero di grammi di pane al giorno. Siamo stati educati a considerare il cibo come qualcosa di importante e di non facile da avere. Ora dobbiamo educarci a distoglierci dagli eccessi, consapevoli che è un vantaggio per noi e per gli altri. Una certa dieta mediterranea, il movimento, le relazioni sociali, il sonno di qualità e anche la postura corretta possono sempre contribuire a farci invecchiare bene e dare ancora il nostro contributo alla società”.

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